I delitti del BarLume? Sono anch’io un provinciale imbranato con le donne come il protagonista

I delitti del BarLume? Sono anch’io un provinciale imbranato con le donne come il protagonista

«I delitti del BarLume? Sono anch’io un provinciale imbranato con le donne come il protagonista»

Intervista a Filippo Timi

 

È un giallo che sconfina volentieri nei toni della commedia, arguto come Montalbano, naïf come Don Matteo.

I delitti del BarLume, tratto dalla serie bestseller ambientata nella provincia toscana dallo scrittore Marco Malvaldi, torna in onda proprio stasera su Sky Cinema Uno con la decima stagione e tre nuove storie, la regia di Roan Johnson e gli storici personaggi interpretati da Filippo Timi, Lucia Mascino, i “vecchini” Alessandro Benvenuti, Marcello Marziali, Atos Davini, Massimo Paganelli, e Enrica Guidi, Corrado Guzzanti e Stefano Fresi.

Il protagonista portato in scena da Timi è un barista detective col pallino della matematica: vi ripropongo qui una sua intervista.

 

Timi, anche lei è un ragazzo di provincia: si è sente vicino al personaggio?

«Parecchio, specie rispetto una sua certa ottusità nei confronti del mondo femminile: Massimo è un ultra quarantenne che non sa gestire il rapporto con le donne, ne è in totale balia. E ogni tanto gli parte l’ormone, con risvolti “hot” piuttosto comici».

Coi numeri se la cava?

«Li adoro, a scuola prendevo tutti 9. Avevo una professoressa, la Cenci, che era una donna bellissima, e il primo giorno ci disse: “ragazzi per calcolare l’infinito serve solo una cosa. Un punto”. Mi ha fatto innamorare della matematica, e un po’ anche di lei».

Parlare di terza età non va molto di moda, eppure il BarLume ha un gruppo di anziani tra i personaggi chiave. 

«Per me è un valore aggiunto. Io sono cresciuto con i miei nonni, protetto da una saggezza che solo i vecchi possono regalarti».

Lei ha spesso descritto sé stesso come balbuziente e mezzo cieco, però piace molto. Ci si ritrova nei panni del sex symbol?

«Neanche un po’, è un termine che detesto. Il mestiere dell’attore parte da un principio assolutamente opposto: siamo tutti poveracci, tutti facciamo la cacca. Il Don Giovanni che ho portato in teatro, per esempio, è uno che non ce la fa più, e si vive come una croce il fatto di dover sempre conquistare».

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